lunedì 16 giugno 2008

parlando di voglia di lavorare...

Fed, in un suo post recente mi ha fatto tornare in mente l'occasione del mio primo colloquio per l'azienda per cui avrei finito per lavorare. La notte prima ho avuto un'incubo tale che in seguito me lo sono riciclato sotto forma di racconto per un concorso letterario che, naturalmente, non ho vinto.

Direi che rende bene quali fossero le ime emozioni all'epoca. Non serve uno psicanalista viennese per capire che non avevo proprio voglia di rinunciare alla mia ben avviata carriera di fancazzista.

Non è del tutto inedito (mi è già capitato di postarlo altrove) ma ecco qui.

primoimpiego

Fu molti anni fa, ma ancora mi ricordo. Arrivai alla fabbrica una mattina di settembre, con più di mezz'ora di anticipo. Ero nervoso e c'erano dei giardini proprio di fronte all'ingresso. Sedetti lì, su una panchina di legno all'ombra attendendo il momento di presentarmi. Fumai un’unica sigaretta cercando di farla durare, prendendola dal pacchetto mezzo vuoto che tenevo in tasca. Le mie dita si muovevano con una rigidezza innaturale mentre l’accendevo. Anche questo ricordo : la sensazione dei muscoli contratti e dell’attesa.
I passanti erano radi e le altalene immobili sotto il sole. I bambini che le avrebbero potute usare erano a scuola, immersi nelle prime lezioni dell'anno, distratti accanto alle finestre che mostravano un mondo fuori dalla loro portata.
Affacciata sui giardini si intravedeva l'insegna di un bar, alta e spenta tra gli alberi che circondavano quel misero sprazzo d'erba cittadino. Avrei voluto alzarmi, entrare, prendere un caffè e leggere il giornale che sicuramente tenevano su un tavolo a disposizione dei clienti, ma in realtà sapevo di non potermelo permettere. Il mio portafogli, nella tasca posteriore dei pantaloni, era desolatamente vuoto. Appena i soldi dell'autobus per tornare a casa.
Il cielo era grigio : un'asciutta minaccia di pioggia sospesa sulla città.
Grigia era anche la polvere che sbiadiva il verde assetato delle piante. Grigio era il colore della fabbrica : una costruzione spigolosa e massiccia di cemento che si spingeva verso l'alto fino a superare il tetto dei palazzi e si estendeva lungo la via scomparendo, nascosta alla mia vista dagli angoli della piazza. Dio, se era grande. L'autobus che mi aveva portato lì l'aveva costeggiata per tre interminabili fermate prima di raggiungere i giardini.
Una grande porta metallica era l'unico ingresso, proprio di fronte alla panchina su cui sedevo. Accanto, il numero civico. Ricordo anche quello : 27, a grandi caratteri scuri sulla destra.
Fu così che cominciò : con l’attesa e con un mondo grigio come un presagio.
Non c'era un campanello da suonare. La grande porta di ferro si schiuse in silenzio. Un uomo attempato, con una tuta blu da operaio mi accolse all’ingresso. I suoi occhi erano grigi. Il colore dominante della giornata. Come il cemento. La sua tuta era stazzonata e logora.
- Buongiorno. Lei deve essere il mio sostituto - disse. C'era una nota di stanchezza nella sua voce. Mi chiesi se per caso non avesse fatto il turno di notte e si fosse poi fermato ad attendermi.
- Lo spero. Ho letto l'annuncio sul giornale e non le nascondo che ho davvero bisogno di questo posto.
Era vero. Probabilmente anche se avessi ottenuto quel posto avrei dovuto ugualmente impegnare qualcosa, i mobili, forse, o gli attrezzi da cucina, per poter mangiare fino al primo stipendio. Se però non l'avessi ottenuto allora presto mi sarei trovato in strada. La mia vita si era andata prosciugando negli ultimi mesi. Mi sentivo come uno straccio lasciato ad asciugare, ogni goccia della mia esistenza evaporata, ogni speranza, ogni possibilità, ogni illusione dissolta sotto il sole d’estate. Avevo davvero bisogno di quel lavoro.
- Non si preoccupi - mi rassicurò lui - Sono certo che il posto sia suo. Venga, le faccio vedere l’ambiente in cui dovrà lavorare.
- Di cosa si tratta esattamente? L’annuncio non era molto chiaro in proposito.
- E’ difficile da spiegare. La cosa più semplice è mostrarle tutto.
Non osai chiedere di più per il momento. Se quello era il suo modo di procedere allora benissimo, avremmo fatto così. A me bastava la confortante certezza nella sua voce : avrei avuto quel lavoro. Lo seguii fino al termine del corridoio. C’erano dei busti di marmo allineati lungo la pareti, rigide figure ottocentesche di pietra. La porta ci schiuse un paesaggio di macchinari scuri che non riuscii a riconoscere. Eravamo in un’immensa officina. Salimmo lungo una scala metallica fino a una passerella che correva lungo la parete per tutta la lunghezza del locale. I nostri passi rimbombavano cigolanti da un muro all’altro, non c’era altro suono né movimento. Solo noi e le macchine, immobili e grigie.
- Non c’è molta gente a quest’ora, vero?
Lui non sorrise. Si limitò a scuotere il capo.
- No.
Lo seguii ancora. Dall’officina a un’autorimessa deserta. I rettangoli dipinti sul pavimento a marchiare il parcheggio di auto inesistenti. Da lì a un’altra officina. In questa le macchine erano coperte da teloni per proteggerle contro la polvere. E poi altre stanze, saloni, corridoi. Un succedersi interminabile. Uffici deserti, senza finestre, con file di scrivanie su cui si allineavano macchine da scrivere inutilizzate. Magazzini colmi di casse di legno ordinatamente accatastate lungo le pareti. Ma perlopiù erano officine, macchinari ordinati e immobili come antichi fossili in un museo. Conchiglie, pensai, conchiglie in un esposizione.
Non incontrammo anima viva. Nessun tramestio di operai disturbava il silenzio. Nessun ronzio di macchine, nessun ticchettio di tastiere, nessun vociare di impiegati in pausa. Nulla.
- Dove sono tutti?
- E’ una cosa un po’ particolare. L’unica è farti vedere. Capirai. Anche io ho avuto qualche problema a ambientarmi all’inizio. Non ti dispiace se ci diamo del tu, vero? Non è il caso di essere formali in questo ambiente.
- No, no, assolutamente. E non preoccuparti, sono sicuro che riuscirò a ambientarmi. Vedrai che presto non riuscirete più a fare a meno di me.
- Ne sono certo.

Iniziavo a sentire l’oppressione di quegli spazi vuoti, la stranezza di quell’ambiente. Non osavo però insistere per avere informazioni : se avessi fatto un passo falso avrei rischiato di perdere proprio quel lavoro per cui ero disposto a qualsiasi cosa. Non volevo rischiare di inimicarmi quell’uomo.
Sarebbe cambiato qualcosa se l’avessi fatto? Se avessi aggredito con le mie domande, se avessi preteso una spiegazione? Non lo credo. Ormai ero già troppo addentro. Avevo calpestato troppo a lungo le passerelle sospese. Le mie dita si erano già macchiate di grasso quando avevo sfiorato le massicce ruote dentate. Avevo visitato troppe stanze. Avevo già superato troppe porte.
Oramai era già finita.
In una stanza trovammo un sacchetto di carta con qualche panino e due bottiglie d’acqua. Il pane era molliccio. Ci fermammo a mangiare in silenzio : avevamo camminato per ore. La mia guida rifiutò ancora di spiegarmi cosa stesse succedendo.
- Si può fumare qui dentro? - chiesi
- Fai pure.
E ricominciammo a camminare.
Avevo dodici sigarette in tasca. Le fumai una dopo l’altra, in una successione sempre più rapida. Al termine gettai a terra il pacchetto senza che il mio mentore commentasse quel gesto.
- Adesso basta. Mi sembra di avere visto abbastanza. Non ti pare che sia il momento di spiegarmi qualcosa?
- Non c’è niente da spiegare. Devi solo vedere.
- Mi stai prendendo in giro? E’ uno scherzo?
- No. E’ tutto qui.
E quello fu tutto. Provai a insistere, naturalmente. Lo insultai. Pensai di aggredirlo fisicamente e minacciai di farlo, ma non sono cose che meritino di essere raccontate, perché sono solo un ornamento a ciò che avvenne. Non cambiano la natura di questa storia più di quanto una mano di vernice possa cambiare la natura di un’automobile. E quello che avvenne, quello che disse fu :
- No. E’ tutto qui.
“E’ tutto qui”. Non ci sarebbe stato nessun vero lavoro, in quel momento crollarono le mie ultime illusioni al riguardo. Non sapevo chi fosse quel pazzo o che senso avesse quel vagare, ma quella era la fine. “E’ tutto qui”. Dicono che la speranza sia l’ultima a morire ma non è vero. La speranza è qualcosa che si tende in te, diventa sempre più sottile e fragile e tu ti afferri sempre più disperatamente finché non si spezza, con un rumore che ti pare quasi di sentire, da qualche parte all’interno del tuo torace. Si può ancora vivere quando la speranza se ne è andata. Si può ancora vivere quando “E’ tutto qui”.
Sarei stato senza lavoro, senza soldi, senza una casa. Era quasi rassicurante quella sensazione, quel vuoto rimbombante dentro di me. Non avevo più bisogno di sforzarmi. Non avevo bisogno di fare niente. Era finito. Restava solo l’inevitabile. Veramente. “E’ tutto qui”.
Tornai sui miei passi. Ripercorsi le vaste sale echeggianti senza sole. E non riuscii a ritrovare l’uscita.
Cercai inutilmente per giorni. Esplorai i lunghi corridoi controllando ogni porta, sperando che almeno una di quelle stanze avesse una finestra da cui affacciarmi. Puntai gli occhi al soffitto sperando in un lucernario da cui raggiungere il tetto. Scesi lungo scale interminabili e risalii fino a superare di molto l’altezza della fabbrica come la ricordavo.
E non c’era uscita.
Alla fine ritrovai l’uomo che mi aveva accolto.
- Dovevi vedere. – disse.
E io avevo visto. Non c’era uscita.
E oramai ero rassegnato. In fondo cosa mi aspettava fuori che io potessi rimpiangere? Una casa che non potevo permettermi? Amici che non avrebbero sentito la mia mancanza? Donne che non mi avrebbero mai desiderato?
Camminai con lui nel silenzio delle stanze deserte.
Alcune stanze erano piene di brande polverose. In altre c’erano panini e acqua. Le incontrammo sempre, quando ne avevamo bisogno. Smisi anche di stupirmi. Sapevo che quando avessi avuto fame avrei trovato cibo. Sapevo ogni sera avrei trovato un letto. Sapevo che ogni giorno sarebbe stato uguale a quello che lo aveva preceduto. Sapevo che ogni stanza, ogni corridoio, ogni officina o magazzino sarebbe stato identico e immobile e polveroso come un milione di altri. Sapevo che avremmo camminato nel silenzio, nel grigio e nella futilità.
E camminammo, infatti. Un gesto sempre più meccanico con il passare delle settimane, dei mesi, infine degli anni. E fu grigio, silenzioso e futile come sapevo che sarebbe stato. Mi stancai di chiedere spiegazioni. Sentivo la mia mente confondersi con il panorama sempre uguale che accompagnava i miei passi. I miei pensieri divennero grigie distese di cemento e macchine immobili. Cambiai i miei abiti in una tuta blu da lavoro che trovai una sera, accanto alle brande su cui dormivamo, e fu confortevole abbandonare i vestiti formali con cui mi ero presentato al colloquio. Un giorno, in un sotterraneo percorso da infinite tubature nere e grondanti, il mio accompagnatore mi raccontò una storia.
- Tutti all'inizio si spaventano. Cercano di scappare ma si accorgono che non è possibile. Non ci sono finestre, solo ventole per l'aria, e non c’è modo di tornare all’ingresso. Alla fine si rassegnano. Come te e me. Ma l'uomo che mi ha guidato in questi corridoi quando avevo la tua età mi ha raccontato che non è sempre così. Qualcuno non ha voluto arrendersi. Vuoi sapere cosa gli è successo?
Annuii. Non osavo parlare, timoroso di infrangere quella nuova e così insolita voglia di raccontare.
- Aprirono il suo torace. Schiantarono le sue costole con attrezzi di ossidiana nera e lame intagliate d'avorio. Rimpiazzarono il suo cuore con un sasso oscuro, il cervello con una manciata di insetti. Ricucirono la ferita con una tela di ragno. Quando guarì, la sua pelle era grigia. Anche lui aveva accettato l'inevitabile.
Non so che senso avesse quell'aneddoto. Forse nessuno, o forse era solo una cosa successa tanto tempo fa e alterata dal ricordo. Forse aveva inventato tutto per il gusto di creare una storia, e quello era il solo genere di storie che potesse esistere in quel luogo. Non seppe dirmi chi avesse fatto quelle cose. Si limitò a raccontare con voce piatta, come una cosa insignificante, mentre attorno lo sgocciolare delle tubature accompagnava ritmico le sue parole e le lampadine nude appese al soffitto si riflettevano nelle pozze scure per terra. Penso che la morale fosse questa: che la vita è una cosa inutile e disperata, e che cercare di cambiarla serve solo a renderla ancora più inutile e ancora più disperata. Non ritornò più sull'argomento.
Morì pochi mesi dopo. Non sapendo come comportarmi lo lasciai su quella branda, dove si era addormentato senza svegliarsi. Coprii il suo volto con un lenzuolo. Uscendo, spensi la luce.
E continuai a camminare. Ancora più solo nelle stanze vuote.
Molti, grigi, anni fa.
Così, questa è la mia storia. E quando la settimana scorsa ho incontrato nuovamente sulla mia strada quell'antico pacchetto di sigarette che avevo gettato il primo giorno, ho saputo di essere vicino al portone.
E ti ho incontrato.
No, non cercare di andartene, è inutile. Non ci sono finestre e non esiste modo di tornare all'ingresso. Non sai quante volte ci ho provato io stesso, quando come te ero fresco di assunzione. E hai già scoperto che il tuo cellulare non può raggiungere nessuno.
Rassegnati, piuttosto, e cerca di familiarizzarti con l'ambiente. Ti ho mai raccontato di quell'uomo che non si era voluto rassegnare?

5 commenti:

Fed Zeppelin ha detto...

Oddio Sauron, ho la pelle d'oca. È estremamente angosciante.
Veramente bello!!!!

Mirtillangela ha detto...

Mi associo a Fed, questo racconto è da pelle d'oca.
Ebbravo Sauron!

sauron era un bravo artigiano ha detto...

Caspita, grazie!

Il Coniglio Mannaro ha detto...

Non posso che concordare: i miei complimenti! Triste e inquietante, ma molto bello.

sauron era un bravo artigiano ha detto...

Grazie, Mat.

Potete immaginare che voglia avevo di andare al colloquio il giorno dopo :))